“Ma è grave?”. Ogniqualvolta una persona va da un dottore per un problema di salute e riceve una diagnosi, per prima cosa pone al medico questa classica domanda. Per rispondere, il clinico deve avere una certa esperienza e sforzarsi di riportar al contesto della persona che ha davanti quanto, in generale, ha studiato in relazione alla malattia. Questo processo viene definito “prognosi”, deriva dal greco pro (“prima”) e gnòsis, (“conoscere, sapere”) e nella pratica medica implica un giudizio di previsione sul probabile decorso ed esito di una malattia, ovvero la probabilità di guarigione del paziente, a seguito di una cura o in assenza di essa. Rappresenta il momento intermedio dei tre in cui l’attività medica è stata strutturata sin dai tempi di Ippocrate: la diagnosi, la prognosi e la terapia, e viene formulata prendendo in consideraizone le condizioni del malato, le possibilità terapeutiche, le possibili complicazioni e le condizioni ambientali.

Normalmente si forniscono tre tipi diversi di prognosi: la prognosi quoad vitam, quella quoad valetudinem e quella quoad functionem. La prima consiste in una stima che il medico effettua sulla sopravvivenza della persona, ed è utilizzata normalmente per patologie gravi, che mettono in pericolo la vita stessa del paziente: ad esempio, viene ampiamente utilizzata nel valutare la prognosi di una neoplasia. La prognosi quoad valetudinem viene utilizzata laddove una patologia, in genere adeguatamente trattata, non metta in pericolo immediato la vita del paziente, ma possa comunque comprometterne le funzioni generali: l’esempio intuitivo è rappresentato da una insufficienza cardiaca o respiratoria. La prognosi quoad functionem invece è utilizzata laddove una patologia possa compromettere anche molto gravemente uno specifico organo, senza compromissione generale del apziente o alcun rischio per la sua vita..

Specificatori di corso nel disturbo bipolare

Nonostante la distinzione in tipo I e tipo II, la categoria diagnostica “disturbo bipolare” adottata dal DSM-IV-TR (APA, 2000) è scarsamente informativa sulle caratteristiche cliniche di ogni persona che riceva tale diagnosi, o, detto in altre parole, l’estrema variabilità di sintomi possibili rende la diagnosi di disturbo bipolare una categoria con presentazioni cliniche variegate e spesso estremamente differenti.

Sono stati aggiunti degli specifica tori alla diagnosi prevista dal manuale. Questi elementi, per avere qualche utilità, devono avere una serie di caratteristiche: 1. Essere sensibili e specifici, ossia permettere di distinguere un gruppo di pazienti da un altro; 2. Avere un valore prognostico siul corso della malattia; 3. Avere una rilevanza terapeutica, ossia implicare alcuni cambi di trattamento o suggerire la risposta a un certo tipo di terapia.

Attualmente, la diagnosi di disturbo bipolare permette l’utilizzo di tre differenti specifica tori (Colom e Vieta, 2009): 1.quelli che descrivono l’episodio attuale o il più recente, in riferimento alla gravità dell’episodio stesso (“leggero”, “moderato”, “grave con/senza sintomi psicotici”), lo stato sintomatico (“in piena/parziale remissione”), il tipo di sintomi (“con sintomi catatonici”) o in relazione al momento di esordio (“post partum”); 2. Quelli che si riferiscono esclusivamente agli episodi depressivi secondo il corso (“cronico”) o la clinica (“con sintomi di melanconia”, “con sintomi atipici”); 3. Quelli descritti come longitudinale, che descrivono un modello di decorso della malattia (“con andamento stagionale”, “a ciclazione rapida”). Appare già ad uno sguardo superficiale come questi tipi di specifica tori siano ordinati in maniera poco razionale, ad esempio il primo gruppo appare come un contenitore eeterogeneo, mentre gli altri due presentano criteri estremamente ampli. Alcuni di questi specifica tori hanno dimostrato un buon valore prognostico: la presenza di aspetti catatonici, per lo meno in episodi maniacali o misti, è un chiaro indice di gravità del quadro clinico (Kruger e Braunig, 2000), o ancora la presenza di un andamento di ciclazione rapida, specificatore individuato da tempo (Dunner e Fieve, 1974) e molto usato in clinica, implica per definizione un maggior numero di ricadute e, meno intuitivamente, una peggiore risposta al trattamento (Vieta et al., 2004). Altri specifica tori necessiterebbero una profonda revisione o una rimozione in quanto sostanzialmente inutili: è il caso, ad esempio, dello specificatore “a esordio post-partum”, che non dà molte informazioni sul tipo di disturbo e non costituisce neanche un fattore di rischio per gravidanze successive (Robertson et al., 2005).

Con il progredire della ricerca clinica, si è visto che altri elementi potrebbero essere considerati per una inclusione come specifica tori di corso del disturbo bipolare. E’ un dato ormai consolidato che una terza parte dei pazienti affetti dal disturbo presentano un esordio precoce, inferiore ai diciotto anni, e che questo fatto sia associato a una evoluzione più sfavorevole del disturbo (Perlis et al., 2004; Geller et al., 2002).

Un altro elemento evidenziato negli ultimi dieci anni è quello che la polarità dell’episodio di esordio del disturbo bipolare di un paziente sia predittiva della polarità della maggior parte degli episodi successivi (Calabrese et al., 2004). Elaborando questa osservazione, è stato proposto il concetto di “Polarità Predominante”, ossia la tendenza di un paziente a ricadere maggiormente in senso depressivo o maniacale (Colom et al., 2006). Nonostante il limite di non includere gli episodi misti, che rappresentano una percentuale tutt’altro che trascurabile delle ricadute di un disturbo bipolare, il concetto della polarità predominante implica scelte cliniche estremamente differenti, dal momento che l’armamentario terapeutico a disposizione degli psichiatri di fatto già dispone i vari trattamenti lungo uno spettro concettuale d’azione, differenziando i farmaci che hanno una dimostrata efficacia maggiore nel prevenire la depressione rispetto a quelli che agiscono più sul versante maniacale.

Allo stato attuale della classificazione, in conclusione, siamo ben lungi dal vedere degli specifica tori che soddisfino le tre condizioni citate al principio, nonostante siano stati creati sulla base di osservazioni cliniche proprio con l’intenzione di aggiungere dettagli alla storia naturale del disturbo ed essere maggiormente informativi su alcuni aspetti inerenti all’intensità e al tipo di sintomi o al decorso della malattia.

Un modo differente di considerare il decorso di una patologia

La stadiazione è definibile come la classificazione di una malattia sulla base dei criteri che intendono misurarne la gravità. In questo modo, può aiutare nella scelta della terapia più appropriata.

L’esempio più conosciuto di stadi azione in medicina è forse quello dei tumori maligni: grazie ad esso gli oncologi forniscono una prognosi sulla neoplasia basandosi su una classificazione definita TNM (Sobin et al., 2010), cioè l’assegnazione di un valore su una scala di gravità prestabilita che considera le dimensioni del tumore, il coinvolgimento dei linfonodi, la diffusione in altri tessuti. E’, in pratica, il modo più semplice e standardizzato per dire quanto il tumore sia grande e quanto sia diffuso nel momento in cui viene diagnosticato, una rappresentazione sintetica dell’estensione anatomica del tumore, ma porta implicitamente informazioni sull’aggressività della neoplasia, sulle possibilità e modalità di intervento, nonché sulle possibilità di sopravvivenza. Con la conferma dei reperti istologici si giunge infine alla stratificazione dei tumori con un numero che va da 0 a 4, nel senso di progressiva gravità.

E’ possibile studiare il disturbo bipolare?

La possibilità di utilizzare dei criteri certi e inoppugnabili per determinare natura e gravità di un disturbo rappresenta una chimera da sempre inseguita in psichiatria, un fatto che se conseguito beneficerebbe grandemente tutte le persone che per un motivo o per l’altro tardano molto, troppo tempo a ricevere una diagnosi corretta. Negli ultimi anni, alcuni ricercatori hanno prodotto una serie di dati inerenti la relazione fra aspetti neuro cognitivi, di neuro immagine e di risposta al trattamento, con la fase della malattia. Appare sempre più chiaro che il disturbo bipolare rappresenti una condizione nella quale esiste una progressione patologica attiva, esacerbata a ogni episodio acuto, che porta correlati biologici precisi. Disponendo questi dati secondo una impalcatura concettuale ordinata in maniera simile a quanto avviene già per altre patologie in medicina, si è giunti a proporre un modello coerente di evoluzione, e quindi stadi azione, del disturbo bipolare (Kapczinski et al., 2009).

Comprendere la fisiologia del disturbo ha una importanza critica per lo sviluppo di nuovi e più specifici trattamenti, ed è probabile che termini come “stress ossidativo” o “citochine infiammatorie” diventino presto parte del vocabolario eziopatogenetico e clinico quotidiano, creando una chiave concettuale che spalanchi definitivamente le porte a una psichiatria basata su alterazioni neurobiologiche certe, proprio come avviene per altre specialità.

Dando uno sguardo allo schema, possiamo fare alcune considerazioni. La prima è relativa all’importanza del primo episodio come bersaglio critico per un trattamento. Trattandolo ed evitando ricadute, si potrebbero evitare tutta una serie di alterazioni neuro anatomiche e neurobiologiche le cui conseguenze cliniche e cognitive possono essere di difficile gestione, dal momento che assestano progressivamente chi le subisce su livelli di funzionamento progressivamente inferiori. Una seconda considerazione è data dal riscontro di una necessità non soddisfatta, ossia quella di avere strumenti che permettano un recupero anche parziale dei deficit neuro cognitivi che col tempo si possono instaurare. Anche in questa direzione la ricerca si sta muovendo, e protocolli di riabilitazione neuro cognitiva sono attualmente in sperimentazione in svariati centri di ricerca.

Ovviamente una strategia terapeutica, per quanto eccellente, ben poco può fare senza che la persona che soffre del disturbo abbia piena coscienza delle conseguenze di un mancato trattamento. Questa coscienza di stato, dagli anglofili definita insight, è il primo e fondamentale passo per una piena aderenza al trattamento. I riscontri biologici anche qui forniscono un chiaro substrato teorico della necessità di ritardare il più possibile le ricadute e contenere l’intensità dei sintomi, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia, con un ruolo attivo e consapevole del paziente.

Conclusioni

Il numero di episodi sofferti da una persona affetta da disturbo bipolare può influire negativamente sulle performance cognitive, e quindi sul funzionamento a ogni livello di vita: affettivo, familiare, sociale, lavorativo, economico.

Di fatto, ripetuti episodi si accompagnano ad alterazioni morfofunzionali della struttura cerebrale, ad esempio ad una riduzione di volume dell’ippocampo riscontrata soprattutto nella depressione. Il trattamento deve essere adeguato nel tipo e nei dosaggi dei farmaci utilizzati, ed essere continuato per aiiutare nella prevenzione delle ricadute, che è ormai chiaro abbiano ripercussioni importanti nella vita della persona che le soffre. Per la stessa ragione, un trattamento precoce è da privilegiare, laddove sia possibile instaurarlo tempestivamente.

D’altro canto, con chi si trovi a soffrire di un disturbo bipolare e abbia avuto già svariate ricadute, è importante evitare un atteggiamento di pessimismo terapeutico per la difficoltà a dare risposte esaustive in termini di prevenzione e cura del deterioramento progressivo.

Senz’altro si tratta di persone che in generale presentano un lungo corso di malattia e svariati tentativi di compensazione con regimi a volte pesanti di polifarmacoterapia. Più che un inopportuno nichilismo, il fatto che alcuni presidi terapeutici sembrino avere ridotta efficacia in questo particolare gruppo di pazienti sottende la necessità di un maggiore impulso alla ricerca, atto ad identificare specifiche strategie di tipo differente: farmacologico, psicoterapeutico e sociale. Il numero e la varietà d’azione dei presidi terapeutici disponibili per il disturbo bipolare cresce di anno in anno, migliorando il ventaglio di possibilità e permettendo di organizzare un trattamento che tenga sempre in conto il profilo di tollerabilità di ogni persona. Una corretta valutazione prognostica diventa quindi un momento imprescindibile che permetta, innanzitutto, alla persona affetta dal disturbo di compiere una serie di scelte informate e consapevoli relative alla propria vita; al medico, di chiarire gli obiettivi prioritari del trattamento e a scartare soluzioni terapeutiche che siano eccessive o inutili. Rendere operativo e pratico il momento della prognosi no è altro che tradurre in un alfabeto condivisibile ciò che, con gli anni e l’esperienza, la clinica dovrebbe insegnare ad ogni medio sulla base della capacità di osservazione e di empatia con il prossimo. Caratteristiche non eìcerto esclusive di un medico, ma presenti in tutti noi: anche un occhio inesperto, ma sensibile, può ad esempio intuire in un capolavoro come Campo di grano con volo di corvi l’angosciosa inquietudine di una crisi che all’epoca, e contrariamente a quanto per fortuna avviene oggi, aveva il sapore di una ineluttabile e tragica soluzione.

Andrea Murru

MD Bipolar Disorder Program, Hospital Clinic,

Barcelona IDIBAPS CIBERSAM

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